“Guarda che a me nessuno ha mai fatto un’intervista, eh. Manco tuo padre!”
“E allora si vede che sarò il primo. E forse l’unico. Me lo regali questo privilegio?”
“Dai, va bene. Però se non viene bene cancelli tutto, eh!”
Non so se fosse vero che non aveva mai fatto un’intervista. E in verità erano solo due parole, non certo l’intervista che avrei voluto fargli e che avrebbe meritato.
Ne avrebbe avute di cose da raccontare Nando Ballariano.
Di storie, personaggi, retroscena. Di Scoglio e Schillaci, Catalano e Bellopede.
Del Messina e di Messina, che ha vissuto, intensamente, da uomo prima ancora che da fotografo.
Saremmo sicuramente partiti da quegli anni d’oro in cui il pallone rotolava tra la serie C e la serie B, ma si sognava in grande. Gli anni ‘80, i “bastardi”, la città viva, in fermento.
Le migliaia di fotografie scattate in campo e fuori a quel gruppo che a Nando era profondamente legato.
Faccio fatica a mettere insieme i pezzi. Ero veramente molto piccolo, ma avevo il grande privilegio di viverlo a pieno, per ovvie ragioni. E il negozio di Nando era una specie di crocevia delle mie giornate da bambino.
“Passiamo da Ballariano” era una frase ricorrente di mio papà.
Stavamo ore, lì dentro. Io guardavo le foto, Nando e mio padre rimanevano a chiacchierare e quasi sempre li raggiungeva qualcun altro.
Quando arrivava qualcuno di importante, i calciatori o il mister, si spostavano nel retrobottega. Uno dei luoghi più misteriosi per me, bambino.
Da grande, quando gli chiesi di vederlo, si mise a ridere: “Ma è praticamente un deposito. E c’è pure un casino… Dovrei mettere un po’ di ordine”.
C’erano migliaia di foto, lì dentro. Alcune di un’epoca ormai lontana, in cui lo scatto finiva impresso su carta e ogni cosa assumeva un sapore diverso. Altre molto più recenti, perché Nando quell’amore per il Messina non lo aveva mai perso. Anzi, nel tempo cresceva, insieme all’amarezza per come andavano le cose.
Credo di averne altrettante, di foto firmate Ballariano, a casa. Custodite gelosamente, perché in quelle foto ci sono pezzi di storia e ogni scatto ha un retroscena.
Ce l’hanno anche le foto che finivano nelle rubriche in tv. “La foto che parla” a Rtp, “Il cerchietto”, che regalava premi a tifosi scelti a caso, ai tempi di TeleVip e poi Tcf.
Ma Nando non era solo un fotografo. Era un collante, a suo modo. Uno che ti faceva sfogare, e poi ti aiutava a ricominciare.
Generoso e con il viso sincero di chi ti parla anche quando non lo fa. Un confidente, anche per me, solidale quando poteva, severo e paterno quando serviva.
Burbero, a volte, ma meravigliosamente disponibile, sempre.
Non lo vedevo da qualche anno, avrei voluto incontrarlo alle Eolie, la scorsa estate, nel raduno dei “bastardi” con cui abbiamo passato ore a parlare di lui. Ore, davvero. Sarebbe stato il modo migliore per salutare quel gruppo che gli voleva e gli vorrà sempre bene come a un padre.
Come me, che ogni volta trovavo in lui un conforto e uno stimolo a fare meglio.
L’ultima foto che abbiamo “insieme” risale a qualche mese dopo che avevo lasciato Messina. Me l’ha mandata Francesco, qualche giorno fa.
Nando era stato uno dei primi a chiamarmi. “Bravo. Però non ti dimenticare da dove vieni” mi ha detto.
Poche parole, da lui che, invece, quando mi raccontava storie e aneddoti del passato di parole ne aveva sempre tantissime.
Da qualche parte, tra i miei vecchi ricordi, dovrei averla ancora, quell’intervista che feci a Nando, quel giorno.
Credo fosse la festa dei Fedelissimi.
PalaSanFilippo.
Festeggiavano i loro primi 30 anni.
E quello stesso giorno, ne feci un’altra, per me altrettanto importante.
A Franco Scoglio, che mi parlava del Messina anni ‘80, di mio padre, di come fosse impossibile ripetere quell’esperienza, di come fosse impossibile la “clonazione dei sentimenti”.
Nando ascoltava e sorrideva. “Conservala questa intervista. Sarà un bellissimo ricordo”.
Lo sarà anche la sua, per me.
“L’unica” mi aveva sempre detto con quel sorriso sempre accennato sul suo volto e gli occhi buoni che lo fregavano sempre.
Secondo me, non era mica vero.
Ma mi è sempre piaciuto credergli.
Maurizio Licordari