La vita è una palestra in cui allenarsi, fare tesoro delle difficoltà e crescere. Spesso pensiamo non sia facile veicolare questo messaggio ai più giovani che anzi siano totalmente impossibilitati a capirlo. Tra i ragazzi però, non tutti hanno avuto la possibilità di sbagliare o scegliere i modi e i tempi con cui maturare. Pensiamo, soprattutto in Italia, che debbano farsi le ossa sul campo, ma le storie che hanno alle spalle possono essere più dure di qualsiasi cazziatone in allenamento.
Emir Sulejmanovic è uno di questi. Ha firmato un contratto pluriennale con uno dei club di maggior prestigio al mondo, l’FC Barcelona, ed è inserito tra i ’95 più promettenti dell’intero pianeta, ha tanta strada ancora davanti, ma non ha voglia di dimenticare quella percorsa.
Ogni stella conosce il suo destino già dalla nascita. Emir è nato su una pietra nel bosco il 13 luglio del 1995, due giorni dopo l’inizio del massacro di Srebrenica (Bosnia), oggi riconosciuto come il più sanguinoso sterminio di massa perpetrato dopo la Seconda Guerra Mondiale (8372 morti, esclusi i tantissimi dispersi). La famiglia Sulejmanovic viveva a Luka Zepa, 40 km da Srebrenica, e per scampare alle truppe del generale Ratko Mladic, che stavano facendo razzia di civili bosniaci, in quei tragici giorni papà Nedzad portò la moglie Vedheta, prossima al parto, e il primogenito Semir di 8 anni nella foresta lì vicino.
“Quello che mi hanno detto i miei parenti riguardo quei giorni è terribile – racconta il ragazzo – scappavano tutti, la città si svuotò in pochissimo tempo. Divisero donne e bambini dagli uomini, mio padre fu catturato e portato nei campi per prigionieri. Fu un periodo terribile per la storia della Bosnia e per quello di tutta l’Europa. Subito dopo il parto, mia mamma si trovò sola con mio fratello e me neonato, sicuramente sarà stata durissima per i miei genitori, ma io oggi sono felice perché sono sopravvissuto e sono qui oggi (sorride, ndr)”.
Il suo sguardo, mentre pronuncia parole come vita e morte, inchioda. Ti arriva freddo sulla pelle il dolore di chi parla di sofferenza perché ha visto soffrire i propri cari. Ma ciò che veramente trasmette il ragazzo non appena lo si incrocia è la forza, mentale prima che fisica.
Io rappresento la mia città, la mia gente, è questo che mi spinge ad allenarmi ogni giorno. Io, è per loro che voglio giocare al meglio che posso. Vorrei renderli fieri, perché io sono fiero di essere uno di loro”.
Il padre di Emir stette prigioniero 256 giorni, poi venne rilasciato e condotto insieme ad altri prigionieri in Finlandia grazie all’intervento della Croce Rossa che provò a ridare una vita a quegli uomini. Fortunatamente Nedzad trovò presto lavoro come tecnico informatico e dopo poco il resto della famiglia lo raggiunse.
“Avevo 13 mesi quando ci siamo trasferiti in Finlandia da mio padre – racconta Emir – anche li non è stato facile però. Siamo stati accolti bene, ma eravamo soli in un paese nuovo con tradizioni e cultura diverse dalle nostre mentre tutta la nostra famiglia era in Bosnia. Quando avevo 4 anni è morta improvvisamente mia madre (nel 2000, ndr) e ciò ha reso la situazione peggiore. Mio padre si è preso cura di me e di mio fratello, lavorava, cucinava, faceva tutto lui. È stata dura davvero per noi, non eravamo neanche in una buona situazione economicamente, ma lì ho imparato il vero significato della vita. Non bisogna mollare mai anche tra tante e serie difficoltà. Se mi avessero detto allora che sarei potuto diventare un giocatore professionista di basket, non avrei neanche tenuto in considerazione la cosa. Ma ora gioco e ho la mia opportunità”.
Quando hai capito che la tua vita poteva cambiare?
“Quando sono stato chiamato la prima volta dall’Olimpija Ljubljana e sono andato ad allenarmi lì 7 giorni in prova. Non appena arrivato in Slovenia ho capito che quella era la chance di mostrare il mio valore, di svoltare e da quel giorno è iniziato il mio viaggio nel basket. Devo tanto a mio padre e mio fratello, loro mi hanno insegnato che alcune cose quando vanno via, non ritornano più. Certe chiamate le ricevi una volta sola e quando succede non devi dare il 100%, ma di più. Non sai mai quello che succederà oggi o domani, devi sempre dare il massimo. Sono sicuro di poter migliorare solo così, anche se lo farò a piccoli passi, sarò più bravo e avrò più opportunità solo se darò tutto sempre in ogni occasione”.
Ljublijana, Barcelona e ora Capo d’Orlando. Il tuo viaggio stupisce anche per le tappe.
“È vero. Quando sono arrivato al Barcelona, il primo obiettivo che mi sono posto era arrivare in prima squadra. Quest’esperienza qui all’Orlandina è molto importante per me. Farò tutto quello che è nelle mie possibilità. Quando mi hanno detto di avere un’opportunità di giocare in Serie A in Italia con l’Orlandina. Ho risposto subito “ok, vado”. L’Italia è un buon campionato, posso allenarmi e giocare con giocatori esperti, affrontare avversari difficili e imparare sempre più. Domenica sfidiamo Milano, una grandissima squadra, dobbiamo stare concentrati e giocare duro. All’Orlandina ci sono giocatori come Nicevic e Basile, Gianluca è una leggenda del Barcelona, ha fatto tanto per il club ed è tanto rispettato da loro. Sono orgoglioso e felice di poter conoscerlo e giocare con lui. Sin dal primo giorno poi ho notato che qui anche negli allenamenti bisogna tenere alta l’intensità. Gli allenamenti sono duri, ma mi piace giocare un basket intenso, credo che mi farà bene”.
Emir a chi vuoi dire grazie davvero?
“Ad Andrej Zakelj e Antti Saarinen. Zakely era assistant coach all’Olimpija Ljubljana in Slovenia, non mi ha lasciato un secondo e mi ha insegnato tantissime cose. Antti Saarinen è stato il mio former coach a Turku in Finlandia, si è sempre preso cura di me e ogni giorno veniva a prendermi ed accompagnarmi con la macchina agli allenamenti perché mio padre non poteva”.
Dove andrai dopo questo periodo all’Orlandina?
“Continuerò ad allenarmi e l’11 luglio, come ogni estate, tornerò a Srebrenica per la cerimonia in memoria delle vittime del massacro e andrò nel bosco lì a fianco a toccare la pietra su cui sono nato. Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario del massacro, l’11 luglio è uno dei giorni più tristi nella mia vita. Quando torno a Srebrenica mi chiedo sempre: come sono potute accadere tali cose? Perché hanno perso la vita così tante persone innocenti? Non esiste una ragione per morire, queste resteranno solo domande, ma non dobbiamo perdere la memoria di questi fatti, nulla di simile non deve più accadere”.