“Non mi aspetto niente, arrivo in punta di piedi” aveva detto Vincenzo Nibali prima di partire per l’Ungheria, per il suo undicesimo Giro d’Italia, la 26esima grande corsa a tappe della sua infinita carriera. Lo “squalo dello Stretto” però sa come si vince. Anche se ha 37 anni e l’ultimo Giro lo ha vinto sei anni fa, ribaltandolo clamorosamente nelle tappe conclusive. Presentando la corsa 2022 a “Sportweek” nei giorni scorsi il portacolori dell’Astana l’ha definita “Dura, soprattutto nella terza settimana. Il primo aggettivo che mi viene è sempre lo stesso. Io non arrivo con chissà quali pretese. Ma lasciare il segno, a modo mio… sì, è quello che spero di fare”.
Sarebbe normale non aspettarsi niente dopo un inverno che ha congiurato contro. Una tonsillite e antibiotici tre volte al giorno per una settimana hanno azzerato tutto il lavoro compiuto fino a quel momento. Ma nonostante sia stato pesantemente debilitato anche dal Covid a febbraio, Vincenzo ha mostrato per l’ennesima volta le sue straordinarie qualità, a dispetto della carta d’identità, già nella cronometro di Budapest, tenendo la testa bassa e sfiorando le transenne per limare il suo tempo. In appena 9,2 chilometri si è lasciato dietro molti degli aspiranti al successo finale, compreso il capitano designato della sua Astana, Miguel Angel Lopez, staccato di 23 secondi.
Con tanti contrattempi Nibali in passato si sarebbe rabbuiato, lui invecchiando ha cominciato a prendere quello che viene: “L’esperienza mi ha insegnato che devi fare con quello che hai, tanto lamentarsi è inutile”. Appena tornato all’Astana aveva cercato di riprendersi tutto quello che gli era mancato nelle ultime stagioni, si era convinto che poteva essere l’anno buono per fare un avvicinamento diverso al Giro, passando per tutte le classiche, anche la Parigi-Roubaix. Poi i tecnici lo avevano convinto a rivedere i suoi piani e la salute aveva fatto il resto. È arrivato al Giro a fari spenti, come aveva chiesto. Ma lui è Nibali. E dopo l’Ungheria c’è subito l’Etna, le strade su cui correva da ragazzino, con il cugino e gli amici di una vita. C’è la sua Sicilia, dove nel 1999 da quattordicenne era andato a vedere il Giro, individuando la sagoma di Marco Pantani, il suo eroe. C’è casa, e se avesse il tempo di guardarsi attorno conoscerebbe la metà di quelli che saranno a bordo strada ad applaudirlo.
Quando ritrova il Giro, Nibali si trasforma. Al traguardo della prima tappa, a Visegrad, c’era uno squalo gonfiabile a ricordare che questa è la corsa del fuoriclasse che ha retto le sorti del ciclismo italiano negli ultimi quindici anni. La crono di Budapest lo ha dimostrato. Il ghigno sotto il casco aerodinamico, quarto all’intertempo, dodicesimo alla fine, a 19 secondi da Yates, una delle migliori prove a cronometro di Vincenzo nella corsa rosa. Meglio di Bardet, di Carapaz, di Landa, dell’ex compagno alla Trek, Giulio Ciccone, staccato di 31 secondi.
Salvatore, il padre di Vincenzo, in una telefonata al Processo alla tappa ha confessato: “Lo sapete come sono i corridori, non dicono mai la verità”. Nibali non vuole pressioni, vuole divertirsi e rimanere tranquillo. La stessa scelta di tornare nella squadra dov’era stato più felice e più vincente lo dimostra. All’Astana ha ritrovato molte delle persone che avevano accompagnato i suoi anni d’oro, soprattutto Beppe Martinelli, che non aveva mai smesso di rimpiangerlo. Fari spenti, poche aspettative. Ma anche voglia di sorprendere, di lasciare un segno. “Il meglio l’ho sempre dato nella terza settimana”, ha ammesso Vincenzo dopo la prima convincente prova della sua corsa rosa.