“Grazie allo sport abbiamo la possibilità di migliorare la nostra vita e trovare ogni giorno nuove motivazioni. E non esistono limiti, se non quelli che crea la nostra mente”. È forte il messaggio della trentaduenne messinese Simona Cascio, capitano della nazionale di pallacanestro femminile sorde, che ha compiuto una vera e propria impresa. Le azzurre di Sara Braida si sono infatti laureate per la prima volta campionesse d’Europa. Russia sconfitta in finale a Pescara, 63-61, a coronamento di uno straordinario percorso davanti al pubblico di casa.
Dopo aver avuto la meglio nel girone eliminatorio, prima sulla stessa Russia (68-65 all’overtime), poi sull’Ucraina (54-53), l’Italia ha battuto ai quarti la Polonia (45-30), e in semifinale la Turchia (58-43). Infine il meritatissimo trionfo: un traguardo storico per una compagine nata esattamente dieci anni fa: “Ci sono voluti ben dieci anni per mettermi al collo l’agognata medaglia d’oro – afferma Simona – e dopo due medaglie di bronzo agli Europei del 2016 e alle Deaflympics del 2017, posso dire di aver raggiunto l’apice della mia carriera. Tutto questo è stato possibile grazie a un gruppo di ragazze straordinariamente scalmanate, che ha creduto in questa squadra e in questo sogno. Ancora mi viene difficile metabolizzare quanto accaduto, tanto che ancora mi chiedo e domando alle mie compagne: ma cosa abbiamo combinato? Eppure è tutto vero, tutto reale. E sono orgogliosa di essere il capitano di questa truppa. Ringrazio tutte le mie compagne e tutto lo staff. Perché abbiamo compiuto una vera e propria impresa. La dedica? Ovviamente a mia mamma Franca e a mio fratello Filippo che mi hanno seguita a Pescara per fare il tifo. La mia gioia si è triplicata e dedico a loro questo successo”.
Un’impresa a forti tinte messinesi e sicule, con capitan Cascio, la ragusana Simona Sorrentino e la siracusana Martina Benincasa nel roster azzurro: “Ho iniziato a giocare quando avevo quattro anni – racconta Simona – per seguire le orme di mio fratello Filippo. Sono sorda dalla nascita e portavo un apparecchio acustico, ma questo non è mai stato un problema per me o per gli altri. Anche perché quando si è bambini si pensa solo a divertirsi e non si guardano le diversità. E devo dire che quella sana ingenuità mi manca ogni tanto”. Simona, sin da bimba, ha dovuto però affrontare anche innumerevoli difficoltà. Ed è abituata da sempre a sgomitare per farsi largo nella vita e nello sport: “Ma ho avuto la fortuna di avere una famiglia che non mi ha mai tenuto sotto una campana di vetro”.
Un percorso di alti e bassi, un sentiero tortuoso, quello scolastico prima, e successivamente universitario, che Simona è riuscita con successo a portare a termine, dovendo affrontare anche il dolore della prematura scomparsa del padre: “Avevo il sostegno a scuola, nel pomeriggio facevo logopedia, suonavo il pianoforte e poi ovviamente mi dedicavo alla pallacanestro. All’università, invece, avevo la possibilità di avere un tutor, ma l’ho rifiutato per sentirmi uguale a tutti gli altri. Ci ho messo un po’ più di tempo, le difficoltà le ho avute, ma mi sono laureata in economia e commercio. Oggi lavoro con mia mamma con cui ho un rapporto speciale. Mio papà, purtroppo, è morto quando avevo 17 anni. Sono fiera di me stessa perché ho dimostrato che conciliare studio, sport e lavoro è possibile, io ci sono riuscita, quindi può farcela chiunque. Il periodo più difficile? La scuola superiore – ricorda – dove non ho avuto un rapporto semplice con i miei compagni di classe. Io però non le ho mai mandate a dire, rispondendo sempre a tono e senza peli sulla lingua. In fondo, il bullismo esiste solo quando chi lo subisce non fa niente per opporsi e ribellarsi”.
Simona gioca nel ruolo di pivot, ha mosso i primi passi nel San Matteo e gioca con le normodotate con un apparecchio acustico. Nel 2010, quando in Italia nacque la nazionale femminile non udenti su iniziativa di Elisabetta Ferri e Beatrice Terenzi, la messinese fu tra le pioniere delle azzurre, nonché unica siciliana: “Inizialmente, durante i primi raduni, mi chiamavano “Simona l’africana” – racconta sorridendo –. Con il tempo, però, siamo riuscite a creare un bellissimo gruppo. Nel 2011 abbiamo partecipato ai Mondiali di Palermo centrando un settimo posto, nel 2012, in Turchia, un altro settimo posto agli Europei, mentre nel 2013 abbiamo conquistato un quinto posto alle Deaflympics di Sofia. Nel 2015 un altro quinto posto ai Mondiali di Taipei, e nel 2016, al mio primo anno da capitano, siamo arrivate terze agli Europei di Salonicco. Infine nel 2017 un altro terzo posto alle Deaflympics in Turchia. L’esperienza che ricorderò sicuramente per tutta la vita è stata quella di Taipei, dove abbiamo mangiato riso per quindici giorni e soprattutto abbiamo toccato con mano anche la povertà della gente”.
La giovane, che ammira Tim Duncan e spesso e volentieri la notte sta sveglia per seguire i suoi beniamini dell’NBA, non si pone limiti, ama la vita e si ritiene fortunata: “Non smetterò mai di ringraziare la mia famiglia – conclude –. Ogni mio successo è dedicato a loro ed è grazie a loro se oggi mi ritengo una donna fortunata e serena. Vivo alla giornata e non penso al futuro, ma quando appenderò le scarpette al chiodo, spero il più tardi possibile, vorrei restare nel mondo del basket e contribuire alla crescita della nostra Nazionale, diffondendo e promuovendo le nostre attività, scovando talenti, e magari aiutando chi ha una disabilità e vuole avviarsi allo sport. E chi ha un sogno da inseguire. Perché vale sempre la pena lottare. Di ricordi bellissimi ne ho veramente tanti, penso agli Europei del 2016, quando in Grecia realizzai al suono della sirena il canestro decisivo che ci regalò la medaglia di bronzo. Non capivo più niente, ricordo solo che tutte le mie compagne mi saltarono addosso. Ah, dimenticavo, giocai con il naso fratturato. Perché se ho un pregio, è quello di non arrendermi e di non mollare mai. E di saper trasformare i miei limiti in punti di forza”. Perché i limiti, come le paure, sono solo un’illusione. Proprio come ripeteva “sua altezza aerea” Michael Jordan.
Intervista realizzata da Fabrizio Bertè