Finché matematica non ci separi. Partire è un po’ morire recita un vecchio adagio, ma non ripartire è di certo morire, se parliamo di calcio. Alle regole scritte, sancite da un regolamento, si affiancano regole non scritte, normate dal buon senso. Mai, come adesso, sarebbe di attualità l’applicazione delle seconde.
Italia paese di santi e navigatori, parole di Cristoforo Colombo, di allenatori e legislatori, aggiungiamo noi. Ognuno dà una propria interpretazione alle vigenti normative, spesso (come è inevitabile che sia) trovando e proponendo soluzioni che solo casualmente vedono trarre vantaggio alle squadre di cui sono sostenitori.
Bloccare i campionati e annullare tutto chiedono ad alta voce presidenti e tifosi di squadre che rischiano la retrocessione. Fa, invece, da contraltare la voce di chi chiede di ripartire senza mezzi termini e le squadre di questa corrente si trovano nelle posizioni nobili della classifica.
Molto più condivisibile la fermezza dei gruppi ultrà, che chiedono senza mezzi termini (e loro sì in modo disinteressato) di fermare tutto, per riflettere e anteporre il rispetto di chi a causa di questo mostro ha perso la vita. Purtroppo, quest’ultima condivisibile posizione cozza con il pragmatismo, confinante, ahimè, con un inevitabile e involontario cinismo.
Il calcio è a tutti gli effetti un’industria e come si chiede la ripartenza di ogni attività non si può non farlo per questa. Non ci riferiamo ai diritti televisivi, ma a quelle famiglie che vivono grazie al calcio (magazzinieri, autisti, giardinieri…). Il guaio è che in questa circostanza le normative presenti non contemplano, e non normano, una situazione inedita come questa.
Che fare dunque? Soprattutto a livello di serie A e B, considerato che la C ha già chiesto di fermarsi, bisognerà trovare un compromesso non è semplicissimo e, inevitabilmente, ad una qualsiasi decisione che possa accontentare una parte, faranno da contraltare le proteste e le rimostranze di chi si riterrà danneggiato.
Dire che si prospetta un’estate calda, con il rischio di numerosi ricorsi, è un eufemismo. Il dilemma dunque: ripartire, con quale criterio? Quale sicurezza per gli atleti e le loro famiglie? E con i contratti in scadenza a fine giugno come ci si dovrà comportare?
Non ripartire, con quale determinazione? Congelare la classifica e bloccare le retrocessioni? E tale ipotesi non sarebbe un annullamento del campionato in forma parziale? È per lo stesso principio che una partita non può dirsi conclusa se prima l’arbitro non emette i tre fischi, neanche se manca un secondo alla fine e si è sul 5-0. Come si vede la soluzione è assai complessa da trovare, e l’attesa in questo momento ricorda quella di Godot.
Ci sono decine di esempi di squadre che hanno perso il campionato, sperperando un patrimonio di punti che sembrava in cassaforte, oppure di formazioni che sembravano disperate e che invece nelle ultime giornate con clamorosi colpi di coda hanno ottenuto miracolose salvezze. Finché un campionato non termina non esistono diritti acquisiti.
Intanto, in concomitanza con l’attenuarsi dell’emergenza, sembra che il Governo stia per introdurre una cassa integrazione, riservata ai giocatori che percepiscono meno di 50mila euro annui, che andrebbe magari estesa a tanti addetti ai lavori. Un auspicio sicuramente mette tutti d’accordo: mandare in fuorigioco il Covid-19 e successivamente mostrargli il cartellino rosso con proposta di radiazione. Ma il timore è che i tempi non saranno brevi.
Qualche annetto fa un tale di nome Ponzio Pilato si trovò a dirimere una situazione un tantino più importante di una ripresa di un campionato di calcio e se la cavò con un lavaggio delle mani, poco giustificabile in verità, in quanto il Coronavirus non aveva ancora iniziato la sua nefasta cavalcata… Il presidente federale Gabriele Gravina, che fino a due mesi fa non aveva così tante gatte da pelare e oggi ha molti capelli bianchi in più, non può ripercorrere tale procedura, pur con meno pressioni dell’illustre predecessore. L’impressione è che alla fine non sarà soltanto lui a perderci.