Più di cent’anni, ma senza sentirli. Perché l’obiettivo di chi corre il Giro d’Italia, dal 1909 ad oggi, non è cambiato: essere il più forte pedalando una bicicletta. Ecco cosa accomuna Ganna, il primo a vincere la corsa nel 1909, all’ultimo trionfatore Contador. Nel mezzo tanti protagonisti, tante storie da raccontare in un ciclismo che ha sempre fatto appassionare il “popolo”, quello che con la pioggia o sotto il sole ha atteso per ore il passaggio della carovana. A volte soltanto per pochi secondi, giusto il tempo di un paio di applausi.
Giro è sinonimo di leggende, di grandi sportivi che sono rimasti immortali nel tempo. Uno di questi era senz’altro Alfredo Binda, talmente forte a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta che in una edizione, proprio quella del 1930, gli organizzatori della rosa decisero di fargli una proposta indecente. Ovvero: rimanere a casa anziché correre, con in tasca comunque il premio spettante al primo classificato, per rendere la cosa più equilibrata. Troppo forte, insomma. Fu proprio in quegli anni che Armando Cougnet, ideatore del Giro, si rese conto che per rendere speciale questa corsa doveva inventarsi un “simbolo”, qualcosa che avrebbe reso il leader facilmente riconoscibile. Nacque così, nel 1931, la maglia rosa, quella che ancora oggi indossa il numero uno della classifica generale. E che in quegli anni, parliamo dei Trenta, fu spesso sulle spalle di Gino Bartali, quindi, dopo la Seconda guerra mondiale, su quella del rivale Coppi.
Eccoli, i due grandi simboli del ciclismo italiano, le cui gesta epiche in questo sport nessuno potrà mai cancellare. Bartali aveva un carattere rude, amava stare in mezzo al gruppo, credeva fortemente nella famiglia. Coppi invece era diverso: era schivo, riservato, il suo matrimonio fallito e la successiva storia con la dama Bianca fecero discutere l’Italia intera. Che si spaccò a due, quasi a dover scegliere tra il bianco e il nero: tifare Bartali o tifare Coppi? Quel che accomunava questi due campioni era però la capacità di finire davanti a tutti, seppur con stili di pedalata diversi. Gino Bartali vinse tre Giri, Fausto Coppi cinque. Hanno sconfitto chiunque, anche gli anni di guerra che fermarono la corsa per un lustro. Quella stessa guerra che tutti gli italiani volevano dimenticare al più presto, anche grazie al ciclismo.
Poi vennero gli anni Sessanta, con i trionfi di Anquetil e di quelli di un Gimondi che per tre volte è riuscito a salire sul gradino più alto del podio. Ma come non ricordare i suoi infiniti piazzamenti? Felice Gimondi ha avuto una sola “sfortuna” nel corso della sua carriera, quella di correre nella stessa era del “cannibale” Eddy Merckx, le cui progressioni riuscivano a mettere tutti in difficoltà. Tutti, nessuno escluso. Nel frattempo il mondo delle due ruote a pedali è continuato a cambiare. Nuovi materiali, bici sempre più leggere, squadre sempre più organizzate. Per un Giro sempre più da vincere, obiettivo centrato da altri grandi ciclisti italiani come Saronni e Moser, nei primi anni Ottanta. Nessun dominatore assoluto, ma corse sempre più intense e spettacolari. Con le cronometro individuali spesso e volentieri a fare la differenza, più delle grandi tappe di montagna. Proprio come Anquetil, lo spagnolo Indurain (due successi di tappa) dominava così la corsa rosa: straordinario contro il tempo, abile difensore quando la strada iniziava a salire.
Sul finire degli anni Novanta l’Italia scoprì un altro grande personaggio delle due ruote a pedali, Marco Pantani. Un solo trionfo finale al Giro, ma quante emozioni! Quando la strada iniziava a salire, nessuno poteva reggere il suo passo. Gettata a terra la bandana, era arrivato il momento dell’attacco del “Pirata”. Gli avversari, ad uno ad uno, non potevano far altro che alzare bianca. In Italia, al Giro, come in Francia al Tour. E poi quella macchia nera sulla corsa rosa, quell’edizione del 1999 che ancora attende di conoscere la verità. Con Pantani fermato a due tappe dalla fine per l’ematocrito alto, dopo un Giro dominato. La tappa di Madonna di Campiglio fu per lui l’inizio della fine. Gli anni Duemila hanno un po’ minato la credibilità di questo sport, a causa dei tanti casi di doping venuti a galla, casi che hanno riscritto a posteriori gli albi d’oro delle grandi corse. E’ mancato un dominatore assoluto, come in passato, ma nel 2015 l’Italia intera è tornata ad appassionarsi come un tempo, grazie ad un astro nascente come Fabio Aru, uno scalatore che può riportare l’Italia in cima all’élite mondiale di questo sport. Lui però in questa edizione non ci sarà, ha preferito concentrarsi sul Tour de France.
Il Giro d’Italia 2016 parte oggi dall’Olanda, sì perché i tempi cambiano, con una cronometro di circa dieci chilometri che non sarà soltanto una passerella per i ciclisti in corsa. Il favorito numero uno per la vittoria finale è un italiano, Vincenzo Nibali, lo “squalo dello Stretto”, viste le sue origini messinesi. Lui il Giro lo ha già vinto (nel 2013), prima di trionfare l’anno successivo al Tour. Il 2015 però per il corridore dell’Astana è stato pessimo e in questa corsa rosa ha tanta voglia di riscattarsi. Due i grandi avversari: il 36enne Valverde (che però potrebbe soffrire tanto nelle ultime tappe di montagna) e il più solido Mikel Landa, ex compagno di squadra proprio di Nibali. Lo spagnolo, bravissimo in salita, un po’ meno a cronometro, sarà da tener d’occhio. In tutto 3800 chilometri di fatica, sudore, emozioni, ginocchia sbucciate, salite e discese. Bentornato Giro, non deluderci.
Servizio di Paolo Rebecchi, tratto da “Il Dubbio”.