Quando Richard Carapaz tornerà in Ecuador verrà accolto come un eroe leggendario. Per il vincitore del Giro d’Italia 102, disputato 110 anni dopo il primo del 1909, è pronta una onorificenza del presidente ecuadoriano, Lenin Moreno, un nome che richiama l’ideologia rivoluzionaria sovietica, e nel 2017 si presentò alle elezioni con la sinistra. Nessuno, nemmeno lo stesso Carapaz, avrebbe osato immaginare un’impresa sportiva di questo livello. Quando ha visto materializzarsi “il sogno di una vita”, si è sciolto in un mare di lacrime. Un’impresa storica, la sua.
Carapaz è un atleta di frontiera, perché cresciuto al confine fra Ecuador e Colombia: ha costruito giorno dopo giorno il proprio trionfo, plasmandolo fra le Alpi e le Dolomiti, a dispetto di una concorrenza sempre agguerrita: Nibali, Roglic, il compagno Landa, che avrebbe dovuto aiutare a vincere, trasformandolo invece in gregario, e poi ancora Lopez, Simon Yates e Dumoulin, finché è rimasto in corsa.
Cresciuto in una località chiamata El Carmelo (dal nome di una parrocchia), Carapaz non ha mai perso la fiducia nei propri mezzi, anche quando era stato preso a schiaffi nelle crono. In quelle prove, Roglic sembrava un treno e lui, Carapaz, che chiamano la ‘Locomotora del Carchi’, ha dovuto alzare bandiera bianca. Sapeva che la strada avrebbe ricominciato a salire e che lui l’avrebbe spianata.
Una fatica di poco conto rispetto a quando la mamma Ana Luisa era malata di cancro e lui andava per i campi: la sua famiglia andava avanti soprattutto con i proventi della vendita del latte prodotto da tre mucche del padre Antonio. Famiglia di contadini, i Carapaz, Richard finì nel ciclismo perché abbagliato dalle imprese di Marco Pantani che, quando lui nasceva nel 1993, cominciava a conquistare i primi Gran premi della montagna.
Lo vide volare sui pedali grazie ai filmati di youtube e se ne innamorò. Richie salì su una mountain bike a 8 anni, ma la gettò via, preferendo una bici scassata e senza tubolari. Cominciò a scalare montagne e, alla fine, in Colombia – che era a venti minuti da casa sua – si accorsero di lui. Ne è passato di tempo da quando mungeva le mucche. Entrando nell’Arena, ha visto “passare davanti agli occhi i ‘frame’ di tutti i sacrifici”.
I genitori lo hanno abbracciato, è salito sul podio con i due figli, ha finalmente liberato un sorriso, dopo giorni di tensione, dubbi e tormenti. E’ stato abile, Carapaz, anche ad approfittare del dualismo autolesionistico fra Nibali e Roglic, che si sono marcati, lasciando andare il “campesino” e sottovalutandolo anche. Le curve sono ciò che più assomiglia alla traiettoria della vita e Carapaz le ha disegnate con estrema lucidità.
Ha ricevuto il riconoscimento dei propri meriti dagli avversari, Nibali su tutti. Anche perché, il suo Giro in rosa è stato caratterizzato da due vittorie di tappa: a Frascati e Courmayeur, dopo quella 2018 a Montevergine di Mercogliano. Carapaz è la maglia rosa più ‘alta’, perché è nato e cresciuto a quasi 3 mila metri e perché ha domato tutte le salite.
La mamma adesso sta bene e gioisce con lui, ma anche Richie è un ‘sopravvissuto’, visto che nel 2014 venne fuori da un grave incidente mentre si allenava sulle strade di casa. L’anno scorso si prese il quarto posto, quest’anno ha fatto felice i poco meno di 90mila ecuadoriani che lavorano in Italia. “Corro per l’Ecuador – dice Carapaz – e poco importa se sono diventato corridore in Colombia. I miei colori sono quelli dell’Ecuador”. Questo sì che si chiama senso di appartenenza.