Uno dei più grandi cestisti italiani sottolinea la vicinanza col pubblico che lo ha eletto simbolo dell’Orlandina: “Ai tifosi dopo i successi resta il ricordo della persona. Uscivo per ultimo dal campo, concedendo una foto a tutti”. Sei i club in carriera: “Mi sono sentito una bandiera di Reggio Emilia, Fortitudo e Barcellona”. Oggi è alle prese con una vita normale: “Devo tanto a mio padre, la pallacanestro mi ha dato e tolto. Posso finalmente godermi la famiglia, i cani e la pesca”.
Icona e leggenda. È la doppia dimensione con cui Gianluca Basile ha dovuto convivere da sempre, lui che rappresenta uno dei mostri sacri del nostro basket. Successi in serie ottenuti sia con i club che con la Nazionale, avendo fatto parte dell’ultima generazione in maglia azzurra ad ottenere una striscia consecutiva di riconoscimenti, regalando ai suoi tifosi tutti i piazzamenti del podio tra Olimpiade (un argento ad Atene 2004, rassegna intercontinentale dove il “Baso” in semifinale offrì una delle prestazioni individuali più significative di sempre) ed Europei (oro a Francia 1999 e bronzo in Svezia 2003).
Con i suoi “tiri ignoranti” e per il modo di intendere la pallacanestro ha deliziato il pubblico e incantato anche le platee spagnole, riuscendo a sollevare un’Eurolega. Si è però dovuto scontrare nei primi anni di carriera con conflitti interiori che oggi, alla luce di tutto quello che è riuscito a scrivere, lo rendono ancora più grande agli occhi della gente. Ha seminato con passione, le Coppe sono un vanto ma ciò che lo gratifica di più è il ricordo degli appassionati. Per questo l’Mvp delle finali scudetto del 2005, che nella seconda fase di carriera ha avuto anche il coraggio di scendere in serie A2 con l’Orlandina, si entusiasma leggendo che i social lo hanno proclamato leggenda del club paladino sopravanzando altre quindici stelle del firmamento paladino.
“Mi sono stabilito in Sicilia dal giorno del ritiro e riscuotere il compiacimento delle persone fa sempre estremo piacere perché equivale a uno scudetto, è qualcosa d’importante. Credo che i rapporti umani vadano oltre quelli sportivi, le gesta dell’atleta prima o poi svaniscono, ma rimane il ricordo della persona. In una carriera ventennale ho sempre avuto l’attitudine a essere disponibile, un mio pallino era stare anche fuori dal campo coi tifosi, creando l’atmosfera giusta. Mi è sempre piaciuto metterci la faccia anche quando le cose non andavano bene come a Bologna, per cercare di mantenere sempre attorno alla squadra un clima sereno. Il lavoro in campo va di pari passo con l’attività fuori, sono sempre uscito per ultimo dopo aver fatto tutte le foto di rito. Ringrazio per la pazienza mia moglie”.
Fuori dall’Italia Basile si è fatto amare perdutamente per sei stagioni anche in Spagna, nazione regina in Europa per il seguito e l’organizzazione riservata alla pallacanestro. La pandemia di Coronavirus ha fermato la competizione: “Non è facile dare giudizi sul proseguimento o meno dei campionati. Alla base però ci sono ragioni economiche, introiti televisivi e sponsor che spingono gli organizzatori a provare fino all’ultimo momento a non decretare lo stop. Il rischio è grande, tutti vorremmo riaprire e ripartire ma secondo me ancora questo non è possibile. Fra l’altro lì sono due settimane indietro rispetto all’Italia e la fase due comincerà il 18 maggio. Andando troppo in là col calendario si corre il rischio di compromettere anche la prossima stagione, anche se nel basket non vedo i problemi che ci sono col calcio, che ha un calendario troppo fitto anche per via delle coppe europee. L’Eurolega per via delle licenze già conosce il nome delle proprie partecipanti però la via è molto stretta”.
Decisione unanime anche di fermare la serie A. “Condivido la scelta di non assegnare alcun verdetto, con tutti i meriti possibili ascrivibili alla Virtus che stava giocando un grande campionato e aveva ottime possibilità di arrivare in fondo, resta il fatto che doveva ancora giocarsi un terzo di stagione compresi i playoff che sono il bello della competizione e che rimettono tutto in gioco. Attribuire uno scudetto in queste condizioni estreme avrebbe comportato di segnare sull’albo d’oro un asterisco che inevitabilmente ne avrebbe fatto diminuire il prestigio ai vincitori”.
Uno dei punti di riferimento per il giocatore pugliese è sempre stata la famiglia e la figura di suo padre, che lo ha sempre sostenuto nelle sue scelte professionali e spronato anche di fronte alle comprensibili difficoltà: ”Ha sempre creduto in me sicuramente prima che io ci credessi. Già dai primi giorni di foresteria a Reggio Emilia la domanda che mi ponevo era “Che ci faccio qui?”. Ma pur alle prese con i dubbi e le paure che mi assillavano, quando dalla cabina telefonica parlavo con i miei loro mi davano la forza di continuare e superare tutto. Più che alla qualità delle prestazioni a loro importava che non mi facessi male, conoscevano le mie capacità. Quando da piccolo iniziai facendo calcio, mio padre mi portò ad un provino con il Bari, cosa che io non avrei fatto, e mi diceva di concentrarmi sugli allenamenti, sui palleggi davanti al muro. Mi ha portato per tre anni in campagna facendomi respirare l’aria della terra. Quella vita non semplice ha rafforzato le mie convinzioni e fatto propendere per concentrarmi e consacrarmi nella pallacanestro”.
La vita da atleta professionista, oltre agli inevitabili sacrifici compiuti in palestra, lo ha costretto a rinunce nella vita di coppia e con le sue figlie. “Ricordo il giorno del mio matrimonio, era l’anno della stagione dei record con Reggio Emilia che da neopromossa centrò i playoff scudetto. Avevo prenotato un anno prima perché la sala in Puglia era piena, ma alla fine abbiamo dovuto collocare la celebrazione tra due gare della serie di semifinale scudetto. Poi nel ’99 nacque mia figlia Alessia, ma io ero impegnato in Nazionale agli Europei dove giocavamo quasi ogni giorno. Sono riuscito a vederla dopo due settimane. Inoltre ogni venti giorni partivo, per cui posso dire che fin quando ero in attività è stata molto brava la mamma a colmare le mie assenze forzate”.
In carriera ha militato in sei club, fidelizzando molto con tutto l’ambiente in cui giocava: “Le squadre sono state soltanto tre fino ai 35 anni. Sento molto i cinque anni e mezzo a Reggio Emilia, altrettanti trascorsi a Bologna sponda Fortitudo ed i sei al Barcelona. Credo sia raro stare tanto tempo in una stessa squadra, puoi essere bravo ma questo aspetto va oltre il gioco altrimenti non riesci a sposare un progetto per tanto tempo con la stessa maglia. Nella seconda parte di carriera mi sono divertito tanto l’anno a Cantù fino all’infortunio perchè poi non ho avuto il tempo di ritrovare la condizione fisica per i playoff. Della Fortitudo ricordo il palazzetto sempre pieno, una piazza unica con tifosi passionali che meritano la massima serie. La rivalità con la Virtus raggiunge livelli incredibili, il gap tra le contendenti è cresciuto negli anni come insegnano gli ultimi derby”.
Il ragazzo di Ruvo di Puglia ha scritto pagine di storia in azzurro, il momento più importante per la carriera di ogni atleta, ed è il quinto di sempre per presenze (209 totali): “Abbiamo vissuto anni in cui si avvertiva forte attorno a noi l’amore per quella maglia, in alcune manifestazioni addirittura dovevamo convivere con il giudizio di essere tra i favoriti. Con quella canotta addosso sin dalla palla a due le emozioni ti avvolgono, scocca una scintilla e sei preda dei tuoi pensieri. È un peccato che ormai siano passati tanti anni da quei successi, gli ultimi della nostra Nazionale, che non ha ottenuto più alcuna medaglia pur avendo delle formazioni competitive”.
Oggi è più lontano dai riflettori e da quel mondo fatto di allenamenti e partite ma Gianluca Basile sta riscoprendo tanti interessi e hobby che giocoforza durante la sua carriera doveva mettere in secondo piano. Aspetti che lo rendono unico come quando dava spettacolo sul parquet: “Vivo la quarantena normalmente, gestisco diversi cani e trascorro con loro buona parte delle mie giornate oltre che ad andare a pesca, mia altra passione. Viaggio col furgone in solitudine evitando contatti con altre persone. Vado a vedere le partite ma fuori dal campo non ho attrazione particolare per quel contesto. Per mia natura infatti in campo ho sempre voluto essere padrone delle mie scelte, assecondandole, e oggi vivrei male il dover accettare le scelte altrui e un modo di lavorare diverso dal mio. Soffrirei troppo a guardare tutto questo passivamente. Devo potermi godere la vita, sono pieno di interessi e non ho paura di annoiarmi né di voler restare per forza nell’universo dei canestri. A settembre un amico che costruisce panieri mi ha portato con lui e mi ha fatto apprendere quest’attività che purtroppo si sta perdendo. Sono stato bene, lo faccio senza pormi troppe domande”. Basile è anche questo. Lo lasciamo ai suoi cani, che lo reclamano. Fedeli non tanto per i suoi scudetti o le gesta da campione, che con la palla in mano faceva tutto quello che voleva, ma perché lui è prima di tutto un uomo normale.