Sabato 1 febbraio torna al Teatro Vittorio Emanuele “I Giganti della montagna” di Luigi Pirandello, per la regia di Gabriele Lavia, con un cast stellare, grazie alla Fondazione Teatro della Toscana in coproduzione con Teatro Stabile di Torino, Teatro Biondo di Palermo con il contributo di Regione Sicilia e con il sostegno di ATCL – Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio, Comune di Montalto di Castro, Comune di Viterbo. L’ultima opera in ordine cronologico dello scrittore siciliano, che segna il confine tra favola e realtà, tra mito e sogno, in cui Pirandello celebra l’Arte, ma anche la morte definitiva cui Essa va incontro nella società moderna. Negli anni Trenta, infatti, l’attenzione per l’Arte da parte “dei giganti della montagna” era nulla, in favore della materialità; ma neppure il volgare popolo ne comprende l’essenza, e tutto è perduto. E Pirandello lo aveva compreso. L’opera vide la sua prima rappresentazione teatrale a Firenze, nel 1937 (l’anno dopo la morte dell’autore).
A quella ne seguirono molte altre. Il grande regista Gabriele Lavia, anche interprete dell’opera, nel portarla sulle scene, così riflette e scrive: “Ho sempre pensato che i “ragionamenti” così “appassionati” e “freddi” dei personaggi pirandelliani non fossero che delirio, fuoco. Il suo razionale, costante, lucido rovello fosse calor bianco e la sua dialettica, lucida e distaccata, fosse proprio il ronzio di una “mosca impazzita dentro una bottiglia”. La trasparenza del vetro rende indecifrabile e incomprensibile la “trappola” dentro cui si è infilata. L’esistenza di questa piccolissima “bestia” non è altro che un inutile volo ronzante e pazzo: una vita priva di senso. “Siamo rimasti nel mistero e senza Dio”. È noto che Pirandello, giovane studente all’Università di Bonn, alle domande preliminari per l’ammissione, una delle quali era quale fosse la religione professata, rispose: “Ateo”. Il segretario che redigeva la piccola inchiesta sollevò lo sguardo per qualche secondo. Il giovane Pirandello scrisse, poi, alla sorella: “A Bonn, ogni due abitanti, tre sono bigotti.” Il “mistero senza Dio”, la bottiglia invisibile che intrappola la Mosca Uomo, è l’“oltre”. L’ “oltre” è qualcosa che non può essere colto, ma che ci coglie. Tutta l’opera di Pirandello ruota intorno a questo “mistero” e si protende verso il mistero dell’“oltre”, trappola trasparente, invisibile, ineludibile, incomprensibile dell’uomo.
La trappola è una famosa novella, appunto, di Luigi Pirandello. L’irrazionale, l’onirico, il misterioso, il teosofico, lo spiritico, proteso (nel suo modo di ateo) al divino, ma in senso “greco”, sono presenti nella sua opera. E sono la “bottiglia” dentro cui “ronza”, fino a estenuarsi, il suo delirante racconto poetico dell’uomo intrappolato. La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili, determinate dentro e fuori di noi, perché noi siamo già forme fissate e la coscienza è una momentanea costruzione di finzioni psichiche oltre le quali c’è un’altra realtà che per noi è inconoscibile: schiavi come siamo della “bestia” che è in noi. L’ “Umorismo”, che il “grande” lo fa “piccolo” (l’uomo è una mosca, la vita è una bottiglia) è, per definizione, quel “sentimento del contrario” che serve per rovesciare e scardinare tutte le certezze e talora infrangere la bottiglia-trappola e trovarsi… “oltre”; magari con “la testa rotta”, ma… “oltre”. I giganti della montagna è certamente il punto più “alto” di quell’“oltre”. Oltre l’esistenza sconciata della vita-trappola. Nella Villa La Scalogna, il cui padrone, non a caso, è il Mago-Cotrone-Pirandello, accadono le magie dell’Arte: straordinari prodigi che non hanno bisogno di mezzi materiali per accadere. Accadono e basta. E “vanno accolti”. Questi eventi sono possibili solo nel mondo dell’“oltre”, della fantasia, della sovra-realtà, ai confini della coscienza, ai margini dell’esistenza, dove finiscono quel gruppo di attori sperduti e disperati (perché senza più un Teatro dove recitare), goffi sacerdoti di un’arte delusa, infelice, incompresa, impoverita com’è diventato il Teatro.
“Tempo e luogo (dice la didascalia) indeterminati, tra la favola e la realtà”. Ed è in questo “luogo sospeso”… in questo “tempo non misurato… che il Teatro può accadere… nella “finita infinità” che è la solitudine dell’ “anima sola con se stessa”. Noi sappiamo che Pirandello “sapeva con certezza” di dover morire mentre scriveva i Giganti, il cui titolo iniziale doveva essere I fantasmi. Al medico che lo visitava aveva domandato, un po’ irritato, (lo era sempre quando non stava bene): “Dottore mi vuol dire che è questo?”. E il dottore gli aveva risposto: “Professore… lei non deve aver paura delle parole…. questo è… morire.” Pirandello, che stava scrivendo una nuova sceneggiatura del Mattia Pascal, la mette da parte e scrive i Giganti di cui aveva già alcune scene del primo atto. Alla fine del secondo atto scrive le ultime cinque parole della sua vita e di tutto il Teatro delle maschere nude: “Io ho paura, ho paura…” È proprio quell’ “Io…” che mi fa pensare che Pirandello sapesse, e con paura, che non avrebbe mai scritto il terzo atto, lasciando I giganti della montagna meravigliosamente compiuti nella perfetta incompiutezza umana.” L’appuntamento è al Teatro Vittorio Emanuele Sabato 01 febbraio 2020, alle ore 21:00 – Turno B; Domenica 02 febbraio 2020, alle ore 17:30 – Turno C; Martedì 4 febbraio 2020, ore 21:00 – Turno A; Mercoledì 5 febbraio 2020, alle ore 21:00 – Fuori Abbonamento.