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Messina

La prima trasferta con Mino: ecco perché strappai la figurina di Incocciati

Ci sono immagini che ti restano impresse nella memoria. Istantanee che diventano simbolo di un ricordo molto più grande delle frazioni di secondo che ti sono rimaste in mente. Come le icone dei pc, che aprono file immensi. Io ne ho una ricorrente, quando penso al calcio e alla mia passione per il Messina. 15 settembre 1991. Saranno state più o meno le 17.30. Stadio Renato Dall’Ara di Bologna. Io seduto su un gradino accanto a mio padre che segue la partita, il computer sul tavolino, gli indici che battono veloci sulla tastiera da inviato del Corriere dello Sport. Farmi sedere su quello scalino a mio padre era costato 60mila lire, biglietto di tribuna laterale. “Perché il bambino occupa comunque un posto e deve pagare”, gli avevano detto.

Giuseppe Incocciati
Giuseppe Incocciati con la maglia del Bologna nelle figurine Panini

Alla nostra destra, 50 matti in un settore immenso che cantano festanti e fanno il trenino andando su e giù per gli spalti. Il file si apre, quell’immagine, da frammento, si trasforma in un ricordo nitido. Siamo alla terza giornata del campionato di serie B. Mancano cinque minuti alla fine di Bologna-Messina. E il Messina vince 2-1. Il Bologna era andato in vantaggio con quello lì che ha il nome strano, in un calcio in cui gli stranieri sono ancora un’eccezione riservata alle squadre di serie A o a quelle che in B ci sono arrivate dalla A, proprio come il Bologna. Non più di due, comunque. Poi tre. Come gli italiani in squadra oggi, insomma.

La mia prima trasferta con papà era iniziata con il gol a freddo di uno di quelli lì, rari e temuti. “Occhio allo straniero, è forte!”. A volte neppure era vero, ma faceva figo dirlo. Turkyilmaz, si chiamava, quello straniero lì. E per me, bambino di quasi 10 anni, l’origine era chiara. “Pa’, ma questo è turco, vero?”. “Beh, no. In verità è svizzero”. “Come svizzero? Si chiama Turkylmaz, deve essere turco”. “Solo di origini, ma è svizzero”. Questa cosa mica mi convinceva. Mi convinceva anche meno il fatto che questo turco-svizzero dal cognome strano avesse rovinato la mia partita, la mia giornata perfetta, dopo il viaggio in vagone letto e la colazione nello scompartimento con cappuccino e cornetto.

Maurizio e Mino Licordari
Maurizio e Mino Licordari, due generazioni di giornalismo messinese

Turkyilmaz. 1-0 dopo neppure cinque minuti. A Bologna. Eravamo spacciati. “Abbi pazienza, c’è ancora tanto tempo”, diceva mio padre, più per tranquillizzarmi che perché ci credesse davvero. Io però mi ero fidato, avevo pazientato ed ero stato premiato. Dieci minuti dopo, il gol del pareggio. Di Igor Protti, l’attaccante che già per il semplice fatto di avere addosso la maglia numero nove del Messina che era stata di Totò Schillaci era diventato il mio idolo. Non chiedetemi che gol fece, perché mica lo ricordo. Riguardarlo, oggi, sarebbe facile, ma scorretto. Quindi ammetto di non ricordarlo e basta.

E in verità non ricordo neppure quello più importante. So solo che lo segnò Sacchetti, all’inizio del secondo tempo. Esultai in tribuna, anche se mio padre mi aveva raccomandato di non farlo, per evitare situazioni spiacevoli con i locali. 1-2. A Bologna. Alla terza giornata. Immaginate che meraviglia. Cominciai a fremere, sognando una grande impresa e immaginando di seguire ogni trasferta di quella stagione trionfale. Ecco, allora, l’immagine dei cori e del festoso trenino in tribuna ospiti. E le dita incrociate, la sofferenza.

Kubilay Turkyilmaz
Kubilay Turkyilmaz con la divisa rossoblu

E poi lui, Incocciati. Al 92esimo, in pieno recupero, quando ancora l’arbitro mica te lo diceva quanto si recuperava. Uno scatto, un diagonale chirurgico. La palla che sbatte sul palo interno e va in porta. La porta alla nostra sinistra. Specificarlo è necessario per capire perché non ricordo la reazione dei ragazzi che erano nel settore ospiti, alla mia destra. Pero ricordo benissimo quel gol. E pure la figurina di Incocciati strappata dall’album, una volta tornati a casa. La rabbia e l’amarezza, ma anche il sorriso di mio padre.

“Dai, abbiamo fatto un buon punto”. “Sì, ma ne abbiamo buttato via un altro”. “Secondo me ci dovremmo tenere stretto questo”. Mica aveva torto. Quella squadra di punti non ne fece moltissimi in quella disgraziata stagione. Il punto di Bologna servì a poco. Se avessimo vinto, magari sarebbe iniziata una stagione diversa. Ma i se e i ma nel calcio non valgono. Valgono i punti. E i gol. Come quello di Incocciati. Se non fossero passati 25 anni, sarei ancora arrabbiato con lui. Oggi devo ringraziarlo. Perchè in fondo, se non fosse stato per lui, forse non avrei ricordato molto di quella prima trasferta con mio padre.

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Mino Licordari
Mino Licordari negli studi della Rtp

Di trasferte con mio padre ne ho fatte tante altre, dopo quella. Di vittorie ne ho viste poche, con lui accanto, fuori casa. Perché il Messina era squadra “casalinga”. Vinceva sempre al “Celeste” e raramente fuori. Sarà per questo che l’idea di tornare lì mi piace così tanto. Quando Francesco mi ha chiesto di scrivere qualcosa, per ricordare mio padre, nel primo anniversario della sua scomparsa, mi è venuta subito in mente questa storia.

Dentro c’è molto di ciò che mi ha lasciato. L’amore per il calcio e per il nostro Messina, il rispetto per gli altri, la passione per il giornalismo, la voglia di scrivere, per fermare i momenti e renderli eterni. Ma anche la capacità di sognare, sempre. Una vittoria prestigiosa, un campionato esaltante, la serie A. Sognare. Restando con i piedi per terra. Ed emozionarsi, anche per poco. Perché in fondo, il calcio resta sempre e solo un gioco.

Maurizio Licordari, in ricordo del padre Mino

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